La mole indiziaria complessiva giustifica il ricorso all’induttivo

I giudici d’appello hanno esaminato in maniera puntuale gli elementi rilevanti posti a base degli accertamenti, stabilendo che la loro combinazione fornisce una valida prova presuntiva
I reiterati scostamenti dalle risultanze degli studi di settore e le violazioni in materia di emissione degli scontrini fiscali costituiscono elementi che rendono intrinsecamente inattendibile la contabilità, benché questa risulti formalmente corretta, e legittimano l’Amministrazione finanziaria a determinare induttivamente il reddito del contribuente.
Questi i principi contenuti nell’ordinanza della Corte di cassazione n. 20632 del 31 agosto 2017.
 

Il fatto
La controversia trae origine dal ricorso proposto da un contribuente avverso una serie di avvisi di accertamento ai fini Irpef e Iva contenenti la ripresa a tassazione di un maggior reddito determinato induttivamente dall’ufficio finanziario.
Il ricorso, accolto parzialmente dalla Commissione tributaria provinciale, è stato respinto dai giudici della Commissione regionale.
In tale sede, è stata ribadita la legittimità degli atti impositivi perché basati non solo sul riscontro obiettivo dello scostamento per più anni dagli studi di settore, ma anche su una mole indiziaria complessiva tale da confermare i fatti costitutivi dalla maggior pretesa tributaria vantata dall’Agenzia delle entrate.

Il contribuente ha impugnato davanti alla Cassazione tale sentenza, lamentando violazione e falsa applicazione dell’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, per aver affermato la sussistenza di prove indiziarie legittimanti gli avvisi di accertamento.
La Corte di cassazione, valutati i fatti, ha dichiarato infondato il ricorso del contribuente e lo ha rigettato confermando la legittimità degli atti impositivi.

La decisione
Il giudizio ha per oggetto la tematica delle prove per presunzione poste alla base dell’accertamento induttivo, regolato dall’articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr 600/1973.
Sul tema, i giudici di Cassazione hanno già affermato in precedenti pronunce (fra tutte, ordinanza 26036/2015) che, in tema si accertamento induttivo ai fini Iva, la tenuta di una contabilità formalmente regolare non ostacola l’accertamento induttivo, qualora l’antieconomicità del comportamento del contribuente renda la contabilità intrinsecamente inattendibile.
In tali circostanze, l’ufficio finanziario può legittimamente determinare in maniera induttiva il reddito del contribuente, anche in presenza di presunzioni semplici, purché siano, al contempo, “gravi, precise e concordanti”.
Il reddito così desunto può essere quantificato prendendo a base i ricavi, i compensi e i corrispettivi derivanti dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo sul contribuente “l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni”.

I giudici di piazza Cavour pongono l’attenzione sul tema della prova per presunzioni e rimarcano il ruolo del giudice di merito nella ricostruzione dei fatti.
In particolare, il giudice tributario, pur se chiamato a ricostruire in modo discrezionale il percorso logico posto alla base del proprio convincimento, deve necessariamente partire da una valutazione analitica dei singoli elementi del giudizio, scartando quelli privi di rilevanza e conservando quelli che hanno una valenza probatoria. Successivamente, è doverosa una valutazione complessiva dei fatti rilevanti, per stabilire se essi siano concordanti e se la combinazione degli elementi del giudizio sia in grado di fornire una valida prova presuntiva.
È sulla base di tale ragionamento che la Corte ha respinto il ricorso del contribuente, affermando che i giudici d’appello hanno applicato in maniera puntuale i principi di diritto summenzionati.

Nel caso in commento, i giudici hanno esaminato in maniera puntuale tutte le numerose prove indiziarie poste a base degli accertamenti, costituite da una rilevante mole indiziaria.
Infatti, l’ufficio finanziario aveva constatato – e il giudice esaminato – tali elementi, costituiti da reiterati scostamenti dalle risultanze degli studi di settore, da una inattendibilità delle scritture contabili legata al comportamento antieconomico del contribuente, da molteplici violazioni in ordine all’emissione degli scontrini fiscali e da un’anomala costante bassa redditività dell’attività d’impresa a fronte di un rilevante patrimonio riconducibile al contribuente.

Sulla base di tutti questi fatti, il giudice tributario ha pertanto ritenuto legittimo il metodo utilizzato dall’Agenzia delle entrate e ha convalidato la percentuale di ricarico applicata dall’amministrazione finanziaria per la determinazione dell’effettivo ammontare dei ricavi, che il contribuente non è stato in grado di contestare perché non ha dimostrato che i mutamenti del mercato o la specifica attività d’impresa richiedevano l’applicazione di una diversa percentuale di ricarico.

(articolo di Emiliano Marvulli pubblicato su FiscoOggi dell’11 settembre 2017)